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Secondo la secolare consuetudine stientese di chiamare abitualmente le persone con nomi diversi rispetto a quelli di battesimo, mio zio – ufficialmente Lamberto - era per tutti Canzio. Si vocifera che fu il lattaio a fornirgli quell’appellativo.

Ripercorrendo le pagine del libro della mia memoria confesso di non essere in grado di rintracciare con chiarezza il mio primo ricordo relativo allo zio. Senza dubbio la percezione che io avevo da bambino nei suoi confronti era quella di un uomo possente, alto, pieno di muscoli, con mani enormi –simili a quelle di mio padre ma più nodose, callose, ruvide. Occhi chiari, profondi, intelligenti –forse timidi, al primo approccio, ma poi subito amichevoli. Abiti fuori moda, rustici, spesso troppo stretti e sbiaditi, dai colori un tempo sgargianti ma ben presto resi pallidi dai troppi lavaggi. Un dialetto particolarissimo: lo zio tendeva a mescolare il ferrarese transpadano di base, già morbidissimo rispetto al ferrarese puro, con una miriade di cadenze e vocaboli schiettamente veneti che tradivano la sua provenienza ibrida, di stientese dell’Argine Sabato –ad un passo da Fiesso, più vicino a Rovigo. La risata, poi, era più unica che rara. Dirompente, sguaiata, travolgente, quasi acuta, fragorosa -l’ho sempre considerata magnifica, indimenticabile nella sua genuinità. Esplosiva, incontenibile. Non l’ho mai più sentita da nessuno, nemmeno dai suoi figli. Se chiudo gli occhi mi sembra di udirla ancora.

Una fotografia del matrimonio dei miei genitori. Lo zio tiene per il collo mio padre e finge di volergli tagliare la testa con un coltellaccio. Oltre a loro due ci sono altri due amici di papà –uno di loro è morto qualche anno fa. Mio zio è vestito con una strana camicia violacea a quadratini e indossa una cravatta dal colore indefinibile. Ma il punctum non è né la camicia, né la cravatta, né il coltellaccio -bensì l’enfasi straziante del noema “è stato” (R. Barthes). La data: 10 settembre 1988. La fotografia come aoristo: è stato -e non sarà più. L’emanazione di una serie di referenti non più riproducibili, non più riproponibili nella loro totalità.

Trascorrevamo ogni anno le ultime due settimane di giugno a Rosolina Mare, all’interno di un residence. Lo zio rimaneva soltanto per una settimana a causa dei pressanti lavori ai quali lo obbligava la campagna. Restava per circa sei ore al giorno in piscina e si scottava continuamente la testa, calva. Chiacchierava con tutti, scherzava con tutti, rideva con tutti. Tutti lo conoscevano. Era sempre allegro; non l’ho mai visto di cattivo umore, nemmeno una volta.

Gli piaceva vedermi ballare la mazurca e il fox-trot e insisteva affinché tutte le sere ci recassimo alle G***, un dancing anni ’80 in riva al mare. A volte accadeva che il locale fosse tutto per noi.

Ho letto sul giornale che quella sala da ballo è stata abbattuta qualche anno fa, non esiste più.

Talvolta partecipavo alla Santa Messa a Stienta. Un’immagine di mio zio, seduto alla mia sinistra. Non allargava le braccia durante il Padre Nostro, ma le teneva dietro la schiena.

Poi andavo a pranzare a casa sua. Pasta in bianco con l’olio e bistecche di pollo alla piastra –anche lui mangiava quello che mangiavo io, per solidarietà. Rimaneva sempre colpito dal fatto che ero solito fare il segno della Croce prima di iniziare a pranzare. “Quello è proprio un bel gesto”, diceva –serio. Alla fine del pasto chiedeva sempre una tazza di caffelatte caldo –e io non perdevo occasione per canzonarlo a causa di quella sua strana abitudine che lo faceva somigliare più ad un turista tedesco che ad un agricoltore polesano. Non rimaneva a tavola a lungo; in campagna c’erano continuamente incombenze da risolvere. Quando se ne andava anche io tornavo a casa mia.

Percepivo distintamente il sentimento di incondizionata stima che lo zio nutriva nei miei confronti. In particolare non smetteva mai di ricordarmi quanto per la sua sensibilità fosse inspiegabile e degna di ammirazione la mia assenza di turbamento o vergogna nel parlare in pubblico. Era un aspetto della mia personalità che lo sconvolgeva –io invece non avevo mai prestato la benché minima attenzione a quella mia caratteristica. “Ma siamo parenti io e te?” –mi diceva. Analogamente a mio padre, mio zio –se pubblicamente interpellato- tendeva ad emozionarsi bruscamente e a non essere più in grado di proferir parola –o almeno così mi ha sempre riferito.

Al suo funerale, al termine della Santa Messa, tenni un breve discorso commemorativo dall’ambone. Forte dei suoi ripetuti apprezzamenti, la voce non mi tremò –e in quel caso, per la prima volta, fu dura non cedere all’emozione. Ma rimasi lucido. Lo zio avrebbe gradito.

Nostalgia. Il ricordo dello zio mi provoca sempre una breve e secca stretta al cuore. È struggente. Durante la giornata penso a lui piuttosto spesso –inserisco sovente il suo nome tra le intenzioni di preghiera durante la recita del Santo Rosario.

Non riesco a focalizzarne razionalmente il motivo, ma tendo intuitivamente ad associare all’immagine di mio zio un passaggio di Mrs Dalloway: “Ti ricordi il colore delle persiane a Bourton?”. Anche i pioppi mossi dal vento leggero mi riportano alla mente i felici momenti trascorsi con lui –e persino il dipinto Spiaggia a Trouville, di Boudin.

L’ultima volta in cui lo vidi. Io e la ragazza che sarebbe divenuta mia moglie eravamo in auto, parcheggiati di fronte al magazzino in cui lavorava mio papà. Stavamo ridendo. A un tratto il veicolo iniziò ad ondeggiare vigorosamente. Mio zio aveva afferrato il portapacchi e lo stava muovendo con tutta la sua forza, gridando: “Buonasera, piccioncini!”. Io dissi alla mia promessa sposa: “Ecco, hai conosciuto mio zio”.

Lacerti, memorie periferiche, documenti nascosti negli archivi della mente. La petrarchesca “luce degli intervalli di durata” che talvolta la scrittura fa riemergere come un fiume carsico. Io e mio padre in campagna, è autunno inoltrato. Sibila la bora, la temperatura è bassa -i campi spogli sono illuminati dal tenue crepuscolo incombente. Il cielo è scuro ma limpido, privo di foschia. Lo sguardo si perde lontano, oltre il pioppeto spoglio, verso ovest. Parliamo di legna, di forniture di legna; quindi il discorso si sposta sulle tipologie di legname –faggio, rovere, pino. D’un tratto mio padre dice: “Non riesco a credere che mio fratello non ci sia più”.

Rimaniamo a lungo in silenzio. Cadono le foglie dagli aceri e dai tigli ormai spogli. Continua a spirare il vento del nord.